5 ottobre 1962: viene
pubblicato il primo singolo dei Beatles, "Love Me Do", che farà parte dell'album (edito
il 22 marzo del 1963) "Please Please Me".
Questa sera a Rimini,
in Piazza Cavour, dalle
18 alle 20, i Rangzen
tessono un concertotributo
in onore dei Favolosi Quattro. L’ingresso
è libero. Un consiglio? Per Claudio
Cardelli, leader del gruppo, la canzone da
ascoltare è "Tomorrow
Never Knows".
Facile, facile. «Amami, dai, amami, sai che ti amo, sarò sempre sincero, perciò, ti prego, amami». Una canzone banale, il ritornello accattivamente, e la frangia da bravi bambini. «Come si può pensare la musica senza i Beatles?», si domandava (sciocca sciccheria) Vincenzo Mollica via Rai 1 celebrando il mistero del successo di Love Me Do, il primo singolo dei Favolosi Quattro, pubblicato il 5 ottobre del 1962. L’album di provenienza, Please Please Me, uscì il 22 marzo del 1963: la canzone più travolgente è Twist and Shout, che non è dei Beatles, bensì una cover dal pezzo di Phil Medley e Bert Russell.
2 minuti e 22 secondi alla fama. John Lennon attacca con la fisarmonica manco fosse Bob Dylan, Paul McCartney sorride ben paffuto, è il figlio che tutte le mamme vorrebbero, i batteristi se le son suonate di santa ragione (a giugno registra Pete Best, a settembre Ringo Starr, poi Andy White poi vada per Ringo Starr).
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Il singolo non va oltre il diciassettesimo posto nella classifica inglese. In una oceanica classifica dei “500 Greatest Albums of All Time” stilata da Rolling Stones, quattro album dei Beatles sono nelle prime posizione, due sul podio, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967) è medaglia d’oro, bronzo a Revolver (1966). Please Please Me è al posto numero 39.Tutto questo per dire (come direbbe Mollica) che è difficile pensare alla nostra vita senza i Beatles. Come è difficile pensare alla storia senza Alessandro Magno, la letteratura senza Shakespeare, il pianoforte senza Mozart. Love Me Do: che razza di rapace cartolina. Sembra impossibile riconoscere nel ceffo selvaggio di John il guru dell’amore libero, nei quattro “scarrafoni” i filosofi surfer della allucinazione costante, i patriarchi del Lsd; soltanto Paul è sempre Paul, sorridente, piacione, belloccio. Insieme alla storia dei Beatles bisognerebbe raccontare quella dei tributi ai Beatles. La più favolosa band che suona sopra i testi dei Favolosi Quattro sono i Rangzen.
Nati nel 1997, hanno ricevuto innumerevoli allori, tra cui il plauso della rivista specializzata Beatles Unlimited, hanno suonato un po’ ovunque, da Roma a Sidney al leggendario “Cavern” di Liverpool. Nel 2002, al Teatro degli Atti di Rimini, si sono già dilettati nei festeggiamenti di Love Me Do; replicano dieci anni dopo, in data rotonda, questa sera, dalle 18 alle 20, in Piazza Cavour, nel centro della Malatesta City (attenti alle sbandate: la home page del sito avvisa che «Il 6 ottobre di 50 anni fa usciva il primo disco dei Beatles Love Me Do», errore corretto nelle pagine interne). Repertorio mitologico (che contempla anche i Doors e i Led Zeppelin, Jimi Hendrix e i Deep Purple), alla guida del gruppo, la chitarra beat e beatlesiana di Claudio Cardelli.
«Certamente non faremo Imagine, certamente staremo a litigare sulla scaletta fino a un istante prima di salire sul palco.
Di certo faremo un percorso puramente "beatlesiano", dagli esordi alle ultime registrazioni».
Seguono domande fulminee. Album preferito dei Beatles? «Revolver». Canzone? «Strawberry Fields Forever». Concerto più emozionante? «In India, nell’ottobre del 2000, quando abbiamo suonato davanti al Dalai Lama. |
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Il momento più emozionante, invece, è stata la registrazione negli studi di Abbey Road, nel gennaio del 2005, di nove canzoni “live”». “Rangzen” è una parola tibetana che vuol dire “indipendenza”, Cardelli è il presidente dell’Associazione Italia-Tibet (www.italiatibet.org), faccio due più due e cosa trovo? «Ho imposto il nome Rangzen perché ero certo che ci avrebbe aiutato. Ho avuto la visione di suonare per il Dalai Lama, ed essa si è avverata. Abbiamo ricambiato il privilegio, facendo molti concerti a favore dei tibetani». E il Tibet con i Beatles cosa c’entra? «Nel 1966 John Lennon scrive Tomorrow Never Knows, una canzone dalla modernità sconcertante, scritta sotto le suggestioni del Libro tibetano dei morti, un tomo di culto per i beat. Lennon afferma di averla scritta avendo avuto in visione dei monaci che assisi su una collina cantavano per il Dalai Lama. In effetti, ha l’andamento di una preghiera: It is not dying, it is not dying, recita». Non è morire, non è morire, la morte è una illusione. Un concerto come via di salvezza?
Claudio Cardelli
Oltre ad aver fondato i "Rangzen" nel 1997
è il presidente dell’Associazione Italia-Tibet. |